“Mia nonna viveva a Makaha e parlava spesso degli squali che vivevano nella caverna di Kaneana a Mākua, collegata al mare prima che la bombardassero; quello è il primo ricordo che ho di Mākua. Mia nonna diceva che noi eravamo imparentati con gli squali. Mi ricordo che quando facevano esercitazioni e bombardavano la valle, la nostra casa tremava. Un mio amico abitava proprio fuori dalla base militare e di notte i militari non davano alcun preavviso prima di attaccare. Allora la sua famiglia scappava da casa con i materassi, si mettevano sotto il ponte davanti a Mākua e dormivano lì.” Da Ecologie Native di Emanuela Borgnino (Elèuthera editrice)
“The beauty of that rich interior life, the music of the phloem—it is self-contained, indifferent, the soundtrack to catastrophe. These beetles live fully communicative lives, their Umwelt is thoroughly social. These are not the enemies we ought to choose. The biosecurity state, with its traps, its pesticides, its arborists, its public-education programs, and its quarantined counties, is largely powerless. It was Mao Zedong, apparently, who said that where there is repression, there is resistance. He wasn’t thinking of insects. But we should be. As far back as twenty-five years ago, 7 billion beetles were caught in pheromone traps during a campaign to repulse an invasion of European spruce bark beetles in Norwegian and Swedish forests. 22 Seven billion, and still they kept coming. Repression is futile. Somehow, we will have to cohabit. Somehow, we will have to make friends.“ Hugh Raffles, Insectopedia (2010)
Insectopedia: il titolo è fuorviante, perchè non ha nulla di “enciclopedico”, se non un artificioso tentativo di dare ai capitoli un ordine alfabetico. Si tratta invece di una serie di temini svolti su argomenti più o meno disparati, del tutto slegati fra loro, senza un filo del discorso a unirli. C’è un tema di base, è vero, che non è l’insetto in sè; il libro si incentra su alcuni specifici rapporti culturali che l’essere umano, in varie forme, ha intessuto con questi animali; e tramite questi, viene tratteggiato il problema della similitudine e l’alterità che proviamo verso forme viventi diverse da noi. Ciò nonostante, la sensazione di trovarsi di fronte a un bric-à-brac para-entomologico è palpabile. Titolo fuorviante, dunque ma non ci sarebbe nulla di male: una raccolta di articoli, per quanto disomogenei, avrebbe pur sempre il suo interesse. Il fatto è che Insectopedia è veramente, veramente scritto male. Hugh Raffles fa il gigione con una prosa che cerca di essere brillante, ma fallisce miseramente. Frasi chilometriche, dense di subordinate, pesanti e goffe. Giochini simil-poetici che fanno accapponare la pelle. Evidenti sviste, poi, e ripetizioni che dimostrano la mancanza di un editing degno di questo nome. Ma sorvoliamo sulla forma, e arriviamo ai contenuti; e forse proprio questo è il tasto dolente. Alcuni capitoli trattano argomenti davvero interessanti, altri meno – certi invece sono di una pochezza a dir poco imbarazzante. Anche quando la materia prima è promettente, però, Raffles la rovina con un’elaborazione insulsa. Argomentazioni che vorrebbero essere polifoniche, ma di fatto risultano sconclusionate. Sbrodolate su aspetti secondari, o divagazioni che rubano spazio ai temi più interessanti. A rovinare definitivamente il tutto, una mescolanza di apporti emotivi e aspetti scientifici; che sarebbe pure un’ottima cosa, se anch’essa non fosse sviluppata in maniera del tutto sgraziata, in maniera di danneggiare entrambe le parti del discorso. Si avverte oltretutto che l’autore non è adeguatamente preparato alla materia che pur tratta. Antropologo di formazione, Raffles zoppica evidentemente come entomologo. Sono il primo a sostenere che la scienza non dev’essere territorio esclusivo di esperti, e che anche appassionati o professionisti di altri campi possano entrare in una materia specifica, anche se non è la loro; ma ci vuole, in questi casi, prudenza e umiltà. Qua e là, Raffles si lascia invece andare in azzardi insostenibili da un punto di vista non solo scientifico, ma pure logico; e così danneggia il dialogo multidisciplinare, rafforzando e quasi dando ragione a quei pregiudizi per cui “chi non è del mestiere, deve tacere”. Indicativo, in questo senso, lo scarsissimo uso di nomi scientifici, a cui l’autore preferisce quelli comuni: scelta che evidentemente deriva da una precisa intenzione dello scrittore, ma che non fa che aumentare la confusione del testo (in uno dei primi capitoli, tanto per fare un esempio, si parla di “leaf bug”; solo dopo una decina di pagine, in base al contesto, si capisce che si tratta di pentatomidi, e non di Fillidi come si potrebbe pensare). Insomma, occasione sprecata. Si può leggere comunque Insectopedia come una vetrina in cui fanno capolino alcuni argomenti interessanti, che però sarà meglio altrove. Ma arrivare al termine dei 26 capitoli del libro è davvero una fatica ingrata.
“Le nostre città allora, quelle stesse città che sono il compendio del nostro impatto sulla Terra, possono diventare il simbolo di una nuova speranza. La natura della città è forse l’ultima forma di natura ancora in grado di responsabilizzarci e cambiare la nostra visione del mondo e il nostro modo di agire nei confronti della biodiversità. Ripensando a tutta la sofferenza e a tutta la bellezza cui avevo avuto la fortuna di assistere in quella lunga giornata, i miei occhi si facevano strada nell’intrico del cespuglio dov’erano scomparse le volpi; nonostante il buio del sottobosco, una nuova luce mi annebbiava la vista.” Marco Granata, Bestiario invisibile: Guida agli animali delle nostre città (Il Saggiatore, 2022)
“Cerbero, abituato all’oscurità perenne, si contorce, si dimena, latra. Schiumano di rabbia le tre bocche e dai denti colano sul prato gocce bianche di bava infernale. La terra le accoglie e genera fra le pietre un’erba rigogliosa, tossica come tossica è la saliva del cane: l’aconito.“ Simone Siviero, Mitobotanica (Pentàgora, 2021)
Con quali occhi si può osservare la natura che ci circonda? Prendiamo l’esempio di una pianta, magari un fiore di montagna, come può esserlo l’aconito. Lo si può indagare dal punto di vista botanico: studiare la forma dell’infiorescenza, o meravigliarsi del potentissimo veleno che contiene. Si possono altrimenti rievocare antiche storie e mitologie, che i saggi del passato o la saggezza popolare hanno saputo intrecciare attorno alla figura della pianta. Ancora, il fiore sa parlarci anche a un livello più personale: è il segno visibile che raccoglie memorie, momenti vissuti sui sentieri, paesaggi che ci restano dentro il cuore. Quando incontreremo nuovamente il fiore, quel passato tornerà a rapirci, mescolandosi al presente e trascinandoci fuori dal mondo: quasi un incantesimo, un diario vivente scritto con i colori della natura. Mitobotanica – lo dice già il titolo del libro – cerca di riunire l’approccio scientifico a quello mitologico, e a mio avviso ci riesce pienamente proprio perché inserisce nell’equazione l’elemento personale. Simone Siviero, lo si capisce dalle prime righe, ha svolto un attento e lungo lavoro di studio, sia per quanto riguarda l’aspetto botanico, che nei confronti delle fonti più antiche, dalla Naturalis historia di Plinio ai Discorsi di Mattioli. Il rischio, in questi casi, è di ottenere un centone di dati e aneddoti, una raccolta per l’appunto priva di personalità: libri simili appaiono come certi erbari i cui fiori, pur conservati, perdono i colori e si appiattiscono, fino a mutarsi in fragili segni. Per fortuna, non è questo il caso. L’autore sa coinvolgerci con il suo entusiasmo, con una curiosità contagiosa che nasce da un trasporto sincero verso le forme viventi. È così che ogni pianta – anche quelle meno appariscenti, persino quelle invasive – diventa l’inizio di un viaggio, la porta che si spalanca su un mondo intero da esplorare.
I diversi capitoli sono dedicati a singole piante, senza un criterio fisso – si va dall’imponente ma fragile ippocastano alla minuscola, poetica viola; dalla rarissima Berardia subacaulis, alla plantago che ha colonizzato continenti interi. Non c’è una struttura prefissata, che rischierebbe di rendere il testo enciclopedico, forse noioso; ma è come quando si passeggia con gli occhi attenti, che sia in natura o per le strade di una città: l’incontro con la pianta giunge in maniera casuale, e l’albero o il fiore sono allora come un invito a deviare dal cammino, verso mete dell’immaginazione tutte da scoprire.
La struttura aperta, c’è da dire, lascia spazio a futuri sequel: non possiamo che augurarci altre pubblicazioni sulla falsariga di questa, e d’altronde le piante per rapirci verso nuove direzioni non mancano di certo.
Una nota finale va alla cura editoriale, che personalmente trovo un aspetto della massima importanza, troppo spesso trascurato per motivi economici, o per semplice incuria. La casa editrice Pentàgora ha fatto invece un ottimo lavoro in questo senso, con scelte eleganti fra cui i rimandi a fine pagina, e il font particolare, arricchito dall’uso delle legature tipografiche: sembra così di essere fra le pagine di un affascinante testo a stampa dei secoli passati. A completare l’incanto ci sono poi le vibranti illustrazioni di Giulia Allasio, perfettamente in equilibrio fra il rigore della rappresentazione e il potenziale di immaginazione racchiuso nella pianta.
“Gli antichi poeti sembrano aver guardato alle movenze della libellula con una pazienza e una curiosità impensabili per questa indaffarata generazione. […] Nella fulminea velocità del suo volo – invisibile come il bagliore di un ago dai vivaci colori – hanno trovato una similitudine giusta per l’impermanenza.“ Lafcadio Hearn, Le farfalle danzano e le formiche si ingegnano (Exorma, 2017)
“Nel 1945 la scoperta dei vangeli apocrifi di Nag Hammadi suscitò un impatto enorme sul panorama culturale dell’Occidente contemporaneo. Il torrente carsico dello gnosticismo, per la verità, non si era mai arrestato, e aveva fatto risuonare la propria eco nel corso dei secoli, passando dal Corpus Hermeticum agli inni catari, e dalle poesie di Blake alla psicanalisi di Jung.” Paolo Riberi, Il Serpente e la Croce (Lindau, 2021)
Lo gnosticismo è una presenza costante e della massima influenza lungo lo sviluppo dalla nostra cultura; eppure è stato quasi rimosso dalla coscienza storica, relegato al ruolo di eresia marginale. Ha saputo però rimanere vivo, seppur ai margini, dimostrando una tenacia che solo le idee più seducenti possiedono. E ora la sua scintilla divampa nuovamente, riverberando lì dove meno ci si aspetterebbe di incontrare un’antica via del sacro: nella cultura pop, fra fumetti e film, videogiochi, canzoni.
Ripercorrere lo sviluppo storico dello gnosticismo non è una preoccupazione meramente accademica, ma è anzi uno studio fondamentale per capire le tensioni spirituali che agitano il nostro presente. E tuttavia questo studio non è per niente facile, perché il fenomeno gnosticismo si è palesato in mille rivoli, moltiplicandosi in scuole diverse, tessendo intrecci e contaminazioni, pur mantenendo sempre una coerenza di base. Il serpente e la croce di Paolo Riberi (Lindau, 2021), in questo aspetto, è una guida fondamentale. Non è un caso che il filo conduttore che lega i vari capitoli sia proprio il serpente: l’immagine di una linea tortuosa, che scompare nella terra e poi misteriosamente riappare, esemplifica alla perfezione l’affascinante difficoltà di riassumere una storia così complessa.
Le idee di base dello gnosticismo sono facilmente tracciabili. Quello che chiamiamo “mondo” è in realtà una creazione fallita, a opera di un finto dio malvagio e ignorante. La libertà, in questo senso, è data dalla Gnosi, ovvero dalla conoscenza spirituale: accorgendoci dell’inganno, le catene vengono per forza di cose a dissolversi. Ma il demiurgo e i suoi arconti ostacolano questo risveglio con tutti i loro sforzi, per mantenere prigioniera l’umanità in quell’ignoranza che viene comunemente scambiata per vita. Per fortuna, esiste un Dio superiore, ben al di sopra del falso creatore, ed è grazie ai suoi emissari che l’uomo può ricordare la verità, e distaccarsi dal groviglio del mondo materiale.
Questo quadro, nella realtà storica, si complica notevolmente. In mancanza di un canone affermato da una chiesa centrale, le varie sette gnostiche hanno avuto la libertà di sviluppare concetti e mitologie in varie direzioni; a volte anche contrastanti, seppur senza mai incorrere in scontri dottrinari interni. Paolo Riberi svolge un ottimo lavoro nel coniugare la precisione dello storico, alla semplicità del divulgatore: parte dalle origini dall’analisi dei vangeli gnostici, e conduce il lettore attraverso i vari rami in cui si è sviluppato lo gnosticismo, con un occhio attento alla filosofia e alla religione, ma senza dimenticare l’importante aspetto magico.
Il testo è estremamente documentato, ed è una cosa fondamentale perché in questo campo si scivola facilmente in complottismi storici di stampo sensazionalista; tuttavia la precisione storiografica non nuoce all’esposizione, e anzi il testo scorre leggero e si rende accessibile anche al lettore digiuno in materia. Con le prove alla mano, Riberi ricostruisce i delicati passaggi con cui lo gnosticismo sopravvisse alla repressione da parte della Chiesa: dall’ermetismo alla cabala, e nell’esoterismo dell’islam ismailita, per poi ritornare alla ribalta in Europa grazie alla cultura rinascimentale. Passando per William Blake e i poeti romantici, c’è una continuità sorprendente, che giunge fino all’occultismo di fine Ottocento, e si convoglia in quello che è stato uno dei grandi fautori del ritorno moderno del gnosticismo: Carl Gustav Jung. Lo psicologo svizzero fu un attivo ricercatore della gnosi, e ne integrò le dottrine nelle proprie teorie. É principalmente grazie alla sua influenza che divinità e idee gnostiche tornarono alla ribalta nel XX secolo: fra tutti, l’esempio più chiaro è nel Demian di Herman Hesse, che deve molto alle teorie junghiane, e in cui viene esplicitamente citata la figura gnostica di Abraxas (a cui, fra l’altro, lo stesso Riberi aveva dedicato un libro uscito lo scorso anno).
A far esplodere lo gnosticismo nel panorama culturale della nostra epoca, dicevamo, è stata quella che molti ingiustamente sminuiscono come “industria dell’intrattenimento”. Il mondo della cultura pop, infatti, è intensamente venato di idee gnostiche, a volte affermate in maniera del tutto esplicita. L’innesco, in questo senso, è da ricercarsi nella produzione letteraria di Philip K. Dick, che visse anni di vero e proprio travaglio spirituale, con visioni da cui nacque una complessa rielaborazione personale delle teorie gnostiche – di cui fra l’altro Dick era un attento ricercatore. Le sue opere di fantascienza spesso sublimano in veri e propri trattati teologici. É da notare poi che dai suoi libri sono stati tratti veri e propri blockbuster come Blade Runner, Total Recall e Minority Report. E’ proprio nel cinema hollywoodiano che lo gnosticismo trova un terreno particolarmente fertile. I film gnostici, d’altronde, sono il tema di un precedente libro dello stesso Riberi, Pillola rossa o Loggia nera?. Qui l’autore riprende e aggiorna le sue teorie, mostrandoci un ventaglio di film in cui l’impronta gnostica è particolarmente riconoscibile. È celebre l’esempio di Matrix, più sottile quello di Truman Show, ma anche in Fight Club non mancano i riferimenti alla Gnosi. Il serpente e la croce passa poi al mondo dei telefilm, fra cui Westworld, e ; ma anche ai fumetti, e in particolari quelli di certe saghe della DC Comics, con un particolare focus su autori come Alan Moore e Grant Morrison. Per chiudere il cerchio, l’autore fa un’esegesi di suggestivi testi di canzoni metal, e sottolinea la vena gnostica nella poesia di Leonard Cohen.
Sia nella parte storica che in quella più recente, si rende evidente come lo gnosticismo mantenga una continuità di forte coerenza interna, restando capace tuttavia di adattarsi ai tempi che cambiano, ed evolvere di conseguenza. Un altro merito de Il Serpente e la Croce, a tal proposito, sta nel svicolarsi dalla semplificazione del perennialismo, andando invece ad evidenziare le mutazioni storiche, che sono poi uno degli aspetti più interessanti di questa millenaria vicenda. Proprio il capitolo pop fa riflettere su come i simboli dello gnosticismo siano tutt’ora attualissimi, a patto però di essere ricalibrati, cuciti addosso ai problemi e alla sensibilità della nostra epoca. Al giorno d’oggi non è più la natura stessa ad apparire malvagia, come si credeva nella tarda antichità; né sarebbe accettabile rifiutare la vita nei suoi aspetti più corporei, come nel caso dei Catari. Lo gnosticismo di oggi si scaglia sempre contro il mondo fittizio, ma ora il malvagio demiurgo si adombra nell’avidità delle multinazionali, e in forze politiche senza scrupolo. Come nei miti dell’antichità, queste forze tutt’ora creano e mantengono un’illusione basata sull’ignoranza, una bugia che usurpa il nome di vita e che ci mantiene asserviti, infelici, alienati dalla nostra stessa essenza. É con questa chiave che la Gnosi può giocare un ruolo salvifico estremamente efficace, anche nel XXI secolo: non come escapismo spirituale, ma con la forza della ribellione.
“Abbiamo dimenticato la meraviglia dell’esplorazione? Sappiamo che la bellezza di quello che siamo e che viviamo deriva in buona parte da ciò che ci circonda?” Emanuele Biggi, Micromondi (Il Saggiatore, 2021)
“Ci giro intorno, perché sono un montanaro e ho paura della retorica, ma sottovoce lo voglio dire: la neve secondo me ha a che fare con la poesia più di ogni altro fenomeno naturale e produce il più bello dei silenzi, un silenzio che il cielo costruisce con pazienza e che la terra accoglie con gratitudine.“ Daniele Zovi, Autobiografia della neve (UTET, 2020)
“Ma il cibo è sempre stato anche qualcosa di più di un mero elemento fisico: esso infatti non è solo «realtà» o «necessità», ma è anche «simbolo» e «narrazione». Per questo è il «personaggio» perfetto per una leggenda, come anche per un proverbio o una superstizione.“
Simona Cremonini, La leggenda vien mangiando (PresentARTsì, 2015)
“In realtà è tempo perso star sulle tracce della ninfa, sceglierne una e seguirla, persuasi che prima o poi arriverà il tempo in c i si fermi; perché quella ha in testa da sempre l’idea innata, a lei stessa inconscia, di non farsi acchiappare. La ninfa si rende irreperibile, le scoccia parecchio esser stanata, le pare volgare che qualche molestatore la ripeschi sempre. Così va a trovarsi perennemente fuori dai giochi consueti, ovvero nella splendida situazione in cui non ha niente da perdere né da guadagnare. Dunque si permette il più gran lusso: quello di liberarsi mano a mano.“
Susanna Mati, Ninfa in labirinto (Moretti&Vitali, 2021)
La ninfa è il volto divino della natura; una potenza trascendente ma personificata; spesso legata ad aspetti specifici dell’ambiente, come alberi, o corsi d’acqua; immortale a volte, in altri casi destinata a perire. Una figura simile può apparire confusa e mista, la sovrapposizione di prospettive diverse sul sacro e il suo rapporto con il mondo. Ma forse è proprio questa commistione a essere la cifra che definisce la ninfa.
Susanna Mati ha dedicato alla ninfa una monografia al tempo stesso approfondita e leggera, tortuosa ma scorrevole, proprio come i corsi d’acqua cari a queste divinità. Il libro è stato scritto vent’anni fa, ma è solo di recente che la casa editrice Moretti&Vitali ha pubblicato Ninfa in labirinto – Epifanie di una divinità in fuga. (Qui la scheda del libro, sul sito della casa editrice)
L’autrice segue la fuga della ninfa, che appare come una caduta rovinosa, ma che a uno sguardo più approfondito si rivela come un anelito di libertà, non privo di una certa carica erotica: ogni fuga, d’altronde, presuppone un inseguimento. Si parte dunque in alto, nelle rarefatte quote della filosofia platonica: la ninfa appare qui come incarnazione dell’Anima, cerniera fra le sfere dello spirito e quello della materia; nobile d’origine, ma irrimediabilmente sedotta dal mondo inferiore. L’Anima-ninfa scende, scorre come l’acqua di un torrente, per forza di cose dalle vette verso le valli. Susanna Mati ne segue la rotta, in un colto e delizioso viaggio che da Hölderlin arriva a Montale, passando per Dante, Warburg e Boccaccio.
La documentazione che sorregge Ninfa in labirinto è minuziosa e solida, ma il testo non è aridamente accademico, anzi: brilla di luce propria, suona come una poesia acquatica, fluente anche o forse soprattutto quando non si lascia acciuffare. A tratti il testo si fa difficile, proprio come una ninfa che evita gli assalti dei suoi inseguitori. “L’elaborazione del mythos del Freigeist“; “nýmphai bákchides“; “la génesis è naúseos, è un acquitrinio“. Fra termini in latino o in greco, e citazioni non tradotte in francese e tedesco, ci si sente a volte sperduti, proprio come in un labirinto; ma la musicalità del testo seduce, o forse conduce, come un filo d’Arianna; il ritmo trasforma la prosa in poesia, e le parti inaccessibili si accendono di fascino.
Attraversando le ere, la Ninfa in labirinto giunge fino al contemporaneo, in un’era in cui l’eterna caduta della divinità ha raggiunto livelli abissali: “La ninfula, la pornoninfa, creaturina innocentemente oscena e contorta, desiderosa di scellerata indecenza, medita l’oltrepassamento teatrale d’ogni confine di pudore: per desiderio di troppo corrispondente amore. La ninfa-sgualdrina è del resto un ricordo ancestrale: nelle grotte consacrate a Dioniso s’approntano letti per le ninfe, giacigli fioriti poco destinati al riposo, ricorso rimasto vivo ancora di recente; forse la fanciulla d’un tempo ha alzato il prezzo: e quando nessuno ha voluto prenderla, è sparita.” Eppure anche questa sparizione non è mai completa. Il capitolo finale si apre con una semplice ma profonda rivelazione, di una fertile ambiguità semantica: “Dov’è finita la ninfa. La ninfa è finita in te.“