Fiori selvatici

Per me il fascino principale della Corner road, poco oltre il ponte, risiede in quella piccola macchia di carrubi, salici e betulle etc. cresciuta sull’argine e che compare risalendo la collina.
Ieri ho visto un uomo che si stava costruendo la propria abitazione lì intorno abbattendo proprio quelle piante. Gli ho chiesto se avesse l’intenzione di abbatterle tutte. Ha risposto affermativamente. Gli ho detto che se fossi al suo posto non le abbatterei nemmeno per un centinaio di dollari poiché erano la caratteristica più attraente di quel posto.
«Perchè? – mi ha chiesto – non sono altro che un mucchio di rovi e arbusti che non valgono niente. Qui ci voglio tirare su un muro.» E così, a mo’ di ornamento della sua casa preferisce un’orribile e nuda parete anziché un’affascinante boschetto.

Da Fiori selvatici di Henry D. Thoreau (Piano B edizioni)

Ci sono alcuni libri che andrebbero lasciati aperti, e sfogliati giorno per giorno. Fiori selvatici mi pare proprio uno di questi: non un testo da leggere di fila, dall’inizio alla fine, ma un almanacco da consultare quotidianamente, quasi come un oracolo.

Si tratta di una selezione dai diari di Henry D. Thoreau, in cui il filosofo di Concord annotava le fioriture che incontrava nella sua terra. Al rigore dell’osservazione botanica corrisponde una grande sensibilità poetica, capace di intuire lo spirito del tempo, sempre fedele a sè stesso, ma continuamente declinato nella giostra dei giorni e delle stagioni. Le annotazioni sono raccolte per giorni; accostando, ad esempio, il 13 maggio del 1853 a quello del 1854, e del 1858. La trovo un’intuizione felice, perchè evidenzia quella sensazione di familiarità mista a stupore che si prova nell’osservare nuovamente un fiore spontaneo che si era già incontrato in passato, e che si ritrova in un appuntamento tacito, come se fosse un vecchio amico.

L’edizione italiana, pubblicata nel marzo scorso da Piano B edizioni, rende onore al testo con un’ottima cura editoriale, e con il dettaglio ormai raro, e a me graditissimo della copertina rigida. La traduzione, a cura di Luca Castelletti, rimane sempre a un ottimo livello, risultando molto leggibile senza per questo tradire lo stile dell’autore.

La flora di cui Thoreau parla è ovviamente quella americana; fra essa ci sono molte piante che conosciamo anche noi, e altre simili, diverse specie di generi familiari; ma naturalmente ci sono anche molti volti per noi sconosciuti. In questo sono d’aiuto le eleganti illustrazioni di Barry Moser, che arricchiscono il testo dandogli l’aria di un erbario d’inchiostro.

Ma il fulcro del libro non sono tanto le osservazioni in sè, quanto l’arte di osservare stessa. È un coinvolgimento totale: Thoreau evidenzia forme e colori, ma anche profumi, sensazioni, contorni. Nel descrivere un fiore, parla anche di insetti e uccelli, come se in quell’istante tutto gravitasse attorno alla corolla. E anche lo spirito partecipa a questa comunione, oltrepassando gli artificiosi confini fra umanità e natura:

Oggi resto meravigliato alla vista del giallo scuro, quasi arancione, del senecio. All’inizio ci sono i gialli tenui e primaverili del salici (comprese le calte, seppur non inscuriscono dopo un po’?), il tarassaco, il cinquefoglia, poi il giallo scuro (leggermente più scuro delle calte, a mio parere) e più intenso del ranuncolo, e infine questa vasta distinzione tra il ranuncolo, il krigia e il senecio. E man mano che la stagione procede verso il mese di luglio, ogni nuovo fiore in boccio è senza dubbio espressione dei diversi stati d’animo dell’uomo. È forse la mia mente attraversata da pensieri equivalenti di giallo o arancione ammantati? Il sapore dei miei pensieri inizia a trovare una concordanza.

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