“Cerbero, abituato all’oscurità perenne, si contorce, si dimena, latra. Schiumano di rabbia le tre bocche e dai denti colano sul prato gocce bianche di bava infernale. La terra le accoglie e genera fra le pietre un’erba rigogliosa, tossica come tossica è la saliva del cane: l’aconito.“
Simone Siviero, Mitobotanica (Pentàgora, 2021)

Con quali occhi si può osservare la natura che ci circonda?
Prendiamo l’esempio di una pianta, magari un fiore di montagna, come può esserlo l’aconito.
Lo si può indagare dal punto di vista botanico: studiare la forma dell’infiorescenza, o meravigliarsi del potentissimo veleno che contiene.
Si possono altrimenti rievocare antiche storie e mitologie, che i saggi del passato o la saggezza popolare hanno saputo intrecciare attorno alla figura della pianta.
Ancora, il fiore sa parlarci anche a un livello più personale: è il segno visibile che raccoglie memorie, momenti vissuti sui sentieri, paesaggi che ci restano dentro il cuore. Quando incontreremo nuovamente il fiore, quel passato tornerà a rapirci, mescolandosi al presente e trascinandoci fuori dal mondo: quasi un incantesimo, un diario vivente scritto con i colori della natura.
Mitobotanica – lo dice già il titolo del libro – cerca di riunire l’approccio scientifico a quello mitologico, e a mio avviso ci riesce pienamente proprio perché inserisce nell’equazione l’elemento personale.
Simone Siviero, lo si capisce dalle prime righe, ha svolto un attento e lungo lavoro di studio, sia per quanto riguarda l’aspetto botanico, che nei confronti delle fonti più antiche, dalla Naturalis historia di Plinio ai Discorsi di Mattioli.
Il rischio, in questi casi, è di ottenere un centone di dati e aneddoti, una raccolta per l’appunto priva di personalità: libri simili appaiono come certi erbari i cui fiori, pur conservati, perdono i colori e si appiattiscono, fino a mutarsi in fragili segni.
Per fortuna, non è questo il caso. L’autore sa coinvolgerci con il suo entusiasmo, con una curiosità contagiosa che nasce da un trasporto sincero verso le forme viventi. È così che ogni pianta – anche quelle meno appariscenti, persino quelle invasive – diventa l’inizio di un viaggio, la porta che si spalanca su un mondo intero da esplorare.
I diversi capitoli sono dedicati a singole piante, senza un criterio fisso – si va dall’imponente ma fragile ippocastano alla minuscola, poetica viola; dalla rarissima Berardia subacaulis, alla plantago che ha colonizzato continenti interi. Non c’è una struttura prefissata, che rischierebbe di rendere il testo enciclopedico, forse noioso; ma è come quando si passeggia con gli occhi attenti, che sia in natura o per le strade di una città: l’incontro con la pianta giunge in maniera casuale, e l’albero o il fiore sono allora come un invito a deviare dal cammino, verso mete dell’immaginazione tutte da scoprire.
La struttura aperta, c’è da dire, lascia spazio a futuri sequel: non possiamo che augurarci altre pubblicazioni sulla falsariga di questa, e d’altronde le piante per rapirci verso nuove direzioni non mancano di certo.
Una nota finale va alla cura editoriale, che personalmente trovo un aspetto della massima importanza, troppo spesso trascurato per motivi economici, o per semplice incuria.
La casa editrice Pentàgora ha fatto invece un ottimo lavoro in questo senso, con scelte eleganti fra cui i rimandi a fine pagina, e il font particolare, arricchito dall’uso delle legature tipografiche: sembra così di essere fra le pagine di un affascinante testo a stampa dei secoli passati.
A completare l’incanto ci sono poi le vibranti illustrazioni di Giulia Allasio, perfettamente in equilibrio fra il rigore della rappresentazione e il potenziale di immaginazione racchiuso nella pianta.