Simboli di Vita e di Morte nell’età Neolitica

Il cambiare delle stagioni, i cicli della luna, gli equinozi portavano con sè le proprie regolari cerimonie; la decorazione degli oggetti di culto, delle maschere, degli abiti da cerimonia, degli strumenti musicali, gli affreschi nei templi – tutto il simbolismo religioso connesso con queste attività forniva una grande ispirazione all’espressione creativa e artistica. Questa pacifica religione della fertilità, basata sull’agricoltura ma allo stesso tempo dinamica, è prevalsa nella vita dei popoli dediti all’agricoltura per diversi millenni.
Dorothy Cameron, Simboli di Vita e di Morte nell’età Neolitica (Venexia editrice)

La preistoria è un mistero silenzioso. I millenni che precedono l’invenzione della scrittura rimangono in gran parte un affascinante enigma. Possiamo studiare reperti, lambiccarci su incisioni e pitture rupestri, ma non avremo mai la certezza assoluta sulla loro funzione, sul loro significato, che solo una fonte scritta può darci. Eppure proprio per questo i simboli della preistoria ci attirano, quasi ci incantano: è impossibile resistere al fascino di un arcano irrisolvibile.

La via maestra per tentare di comprendere i simboli delle nostre origini è sempre stata l’archeologia. Disseppellire e datare, catalogare per poi confrontare ritrovamenti analoghi, e infine spingersi a tentare un’ipotesi.
E’ un processo fondamentale, ma ha per forza i suoi limiti. In primis la scarsità di reperti che si sono conservati fino a noi: è come se il tempo fosse un’ondata di marea, che sommerge un intera nazione lasciandone allo scoperto solo qualche brandello, piccole isole che si salvano dall’oblio. Come potremmo capire un’intera cultura, da questi frammenti?
All’approccio razionale, scientifico, è quindi necessario affiancare uno sviluppo creativo, che cerchi di amplificare i simboli arcaici tramite l’empatia e l’intuizione.
Simboli di Vita e di Morte (recentemente tradotto e pubblicato in Italia dalla casa editrice Venexia) percorre proprio in questa direzione.
L’autrice, Dorothy Cameron, è stata in prima battuta un’artista, una poetessa. Ciò potrebbe far storcere il naso a qualcuno: è abitudine considerare certe materie come territori chiusi, in cui solo gli studiosi specializzati hanno diritto d’accesso. E’ un pregiudizio che è bene sfatare. Cameron sfoggia una straordinaria capacità immaginativa, ma ciò non significa che l’autrice si conceda inesattezze archeologiche. Al contrario, dimostra un’estesa conoscenza del panorama storico di riferimento, che le permette di unire alla creatività delle ipotesi la solidità delle conferme archeologiche.

Dorothy Cameron ha bene in mente l’enorme distanza fra il nostro mondo e quello preistorico: “Ho imparato quanto sia importante non leggere i significati di oggi nell’arte preistorica“. Tuttavia questa distanza non significa una completa alterità, non comporta un’impossibilità di comprensione: “Queste immagini simboliche, che hanno radici nel profondo della psiche umana, per migliaia di anni furono le fondamenta dello sviluppo culturale. E risuonano ancora oggi nella nostra psiche.” E’ per questo che l’intuizione artistica può corroborare l’indagine archeologica, aprendo ipotesi suggestive e affascinanti che possono orientare la nostra comprensione della storia delle nostre origini.

La Dea partorisce un toro – bassorilievo di Çatalhöyük (immagine tratta dal libro)

L’indagine del libro si incentra su due siti neolitici: Çatalhöyük e Teleilat el Ghassul. Il primo, celebre per la sua grandezza e per la straordinaria ricchezza delle decorazioni che ha conservato, si trova in Turchia, mentre l’altro, di dimensioni più modeste, è in Giordania. Due luoghi non certo vicini, eppure affini nella simbologia. In particolare, il simbolismo attorno a cui gravitano le raffigurazioni di entrambi è incentrato sull’aspetto sacro della nascita e della morte. Due archetipi apparentemente opposti, contrastanti, ma che si conciliano in un’unica figura: la Madre, la grande Dea arcaica che ha il potere di dare alla luce la nuova vita, ma anche di riassorbirla in sè al termine del suo corso.

La Dea è la partoriente, come nell’immagine qui sopra; ma è anche l’avvoltoio che consuma i corpi, reimmettendoli nel grande ciclo dell’esistenza.

Affresco dal “Tempio degli avvoltoi” di Çatalhöyük (immagine tratta dal libro)

Il rosso della nascita e il nero della morte: i colori prevalenti nelle decorazioni di questi siti vengono riassunti nella celebre stella di Teleilat el Ghassul, ritratta nella copertina del libro. Un simbolo che riecheggerà nei secoli, diventando in seguito la stella di Ishtar, e conservandosi fino ai nostri giorni come attributo della Madonna cristiana.

Simboli di Vita e di Morte è un affascinante viaggio fra le radici più profonde della storia umana. Non bisogna però dimenticare che in questi campi ogni tentativo di interpretazione, per forza di cose, è destinato a rimanere un’ipotesi. In tal senso, è inevitabile che certi passi risultino meno convincenti di altri: è il caso ad esempio di alcuni passi in cui l’autrice interpreta certi simboli sulla base della somiglianza anatomica con gli organi riproduttivi femminili. Anche in questi frangenti, però, l’intuizione artistica dell’autrice si dimostra di grande valore: qui è come se i simboli arcaici fossero uno specchio, opalizzato dai secoli ma ancora capace di riflettere e mostrarci un aspetto della nostra anima che altrimenti ci rimarrebbe nascosto.
Simboli di Vita e di Morte, infatti, è un libro valido e interessante dal punto di vista storiografico, ma la sua principale attrattiva sta nella capacità di far risplendere i simboli preistorici, fino a renderli vivi e attuali. Gli archetipi non tramontano mai: la loro voce attraversa i millenni, il loro messaggio è – e sarà per sempre – fondamentale.

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